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La Joker Gang si dirige “Verso un cielo nuovo”

Passione, rabbia e trasparenza, tre parole che riassumono alla perfezione il senso musicale dell’enigmatico Joe Kerr, mente e voce della Joker Gang.

Inutile dire che a ispirare profondamente l’attività dell’artista è il popolare personaggio della DC, un antagonista di quelli cazzuti, impossibile da domare, incorruttibile e sordo a ogni forma di trattativa o di negoziazione.

Potrebbe sembrare banale, ma i messaggi contenuti nei brani che compongono Verso un cielo nuovo spesso sembrano davvero brillare di simili luci; lo spirito dell’autore è indocile, pervaso da un mix di collera, di dolore e di nostalgia. Nessuno sconto emotivo, quindi, e un’interpretazione eccellente.

Il cantante non ha problemi nel mettersi a nudo, raccontando e percorrendo tanti aspetti della propria
esistenza. Il nostro Joker decide di sputare emozioni forti, lasciandosi accudire da sonorità in grado di toccare vari ambienti e vari stili. Difficile immergere l’album in un determinato genere: abbiamo rock, abbiamo pop, abbiamo la sapiente arte dei cantautori. Passiamo dall’elettricità dei brani più
spinti alla quiete delle ballatone da accendino o da camino caldo.
Un ottimo disco, davvero, affidato all’esperienza del produttore Patrik Matrone, altro soggetto che conosce bene il mestiere del musicista.
Si parte subito con l’anima battagliera di Insano gesto, un rockettone zeppo di pathos e di rancore.
Una fotografia feroce che l’artista deve per forza mostrarci, senza preoccuparsi della durezza narrata. Sul tavolo vengono subito calate alcune delle carte a lui più care: il dolore suscitato dall’amore, il concetto di specchio, il senso di avversione nei confronti delle regole del mondo e la necessità di un piacere onirico. In sostanza un pezzo d’apertura tosto e viscerale.

Il successivo brano, Italyent show, in duetto con Pask Pasella (coautore anche di Se avessi posto), è una critica feroce al sistema musicale odierno, dominato, ahimè, dai talent e divorato dal
consumismo. Niente sconti o giri di parole per addolcire la pillola: chitarre a mo’di pistole (forse di bombe), si picchia forte e con bruciante sarcasmo. Di fatto, indignazione e denuncia impregnano anche la punkeggiante Annegando Navigando e il pop amaro di Cuori Meccanici. L’autore si scaglia con convinzione contro i drogati di web, ormai sempre più vicini a cyborg schiavizzati, incapaci di prendere decisioni e strade proprie. Sì, bisognerebbe davvero tornare al tempo in cui la vita sapeva di vita, l’omologazione è un pericolo costante e serio. Combattere è di conseguenza più
che un obbligo, e Joe Kerr lo sa bene. In fondo, ascoltando la bellissima title track, piazzata in scaletta alla terza posizione o la dolce Sognando il tuo nome, sfidandoci abbastanza, la famosa luce in fondo al tunnel possiamo anche a vederla. Il gioiello del disco è probabilmente la straripante Ahtnamas, una ballad poetica e tuttavia decisa, piena di ricordi, di momenti e di vita. La Joker Gang ci regala una serie strepitosa di immagini, ora dolcissime e ora dolorose come sfregi nel petto, come
riflessi confusi al centro dello specchio, ancora una volta protagonista assoluto. Provate ad analizzare il titolo…

Un album piacevolissimo, ben cantato, sincero come pochi. Una collezione di ottimi brani, di azzeccati ritornelli. Nessun riempitivo. Un album sicuramente da ascoltare, da supportare e da
consigliare agli innamorati della musica sana. E sì, da consigliare anche ai fan del cattivone della DC…

Ricky Rage Gramazio

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L’Elettro-Pop di Milô

Milo Grieco, in arte Milô è un cantautore romano dal timbro molto particolare che, a colpi di basso e sintetizzatori, anima il suo palco con il suo elettro-pop.
Un genere che si affaccia sicuramente a ciò che il “commercio” della musica richiede in questi ultimi anni, un intreccio quasi dubstep tra il pop italiano e la musica elettronica.

Di notevole fattura e qualità sono i suoni scelti nei brani, alcuni inseriti decisamente al momento azzeccato e il tutto si muove certamente in linea con la vocalità del nostro cantautore.
Milô ci propone il brano “Lettera a Dio”, una preghiera introspettiva che si affaccia al sociale e alla vita di tutti i giorni pur restando con i piedi ben ancorati al terreno.

Una coraggiosa presa di posizione nei confronti della propria fede che arriva quasi all’esasperazione della stessa. Un messaggio molto forte e ben riuscito. La voce di Milô, che ricorda vagamente quella di Marco Mengoni, più nello stile e nel modo di cantare che nel timbro, ha una gran bella estensione, si intreccia con cori molto acuti sfiorando la voce in testa anche nel registro di petto e a tratti riesce a rimanere graffiante al punto giusto.
Consigliatissimo, sicuramente da ascoltare e apprezzare in più di un’occasione.

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I Zizzania e la loro “Eclissi”

Oggi vi presentiamo I Zizzania, Umberto Coco alla voce, Gigi Gallo e Saverio Liberto alle chitarre, Alessandro Smecca al basso, Gery Palazzotto alla batteria. I 5 ragazzi provengono da Sciacca, formano il loro progetto nel 2012 e ci offrono un rock italiano molto particolare facendosi notare negli anni in varie manifestazioni e contest con prestigiosi riconoscimenti. La band è stata persino inserita in un album di cover dei Litfiba con il brano “La preda”.

Tra il 2017 e il 2018 producono l’album “Eclissi” del quale potete ascoltare qui sotto il singolo.
Il brano si intitola “Perdere le tracce” ed è accompagnato da un videoclip molto particolare e colorito che si sposa decisamente bene con il sound della band e l’intenzione del brano.

Un solido indie rock con un ottimo tiro, ritmiche incalzanti a tratti percussive sottolineano l’andamento energico del pezzo mentre le distorsioni delle chitarre elettriche regalano graffio ed energia al pezzo, andando quasi ad uniformarsi alla vocalità del cantante. Ottima la qualità sonora in termini di registrazione, mix e mastering, decisamente un prodotto valido

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Esaltazione dei perdenti: I Prigionieri

La musica dei Prigionieri è l’esaltazione dei grandi perdenti, capaci di perdere talmente bene da risultare alla fine vincenti. Più o meno così la band lombarda prova a definire il proprio ruolo all’interno della scena musicale. A mio avviso però, i ragazzi di Fagnano Olona sanno come si fa e di perdente hanno ben poco. Si divertono, si sbattono e… sì, si divertono ancora.

Le loro sonorità rock richiamano la scena classica dei ‘70, ma anche i nostri primi Litfiba e il cantautorato vero e proprio. Chi ha voglia di sano rock and roll nazionale ha trovato pane e carne per i propri canini. Il loro album d’esordio, Perdizione, produzione indipendente di questo 2018 è senza dubbio un lavoro interessante e originale. Il sound è accattivante, zeppo di spunti e di riff duri come il marmo, allegramente immersi nel contesto selvaggio creato. Già, ma sono soprattutto le liriche a colpire, a meritare in maniera assoluta l’attenzione: oscure, gotiche e spesso dal sapore horror. Orizzonti dark, psicotici, eppure poetici e ben disegnati. Le immagini proposte sono per esempio quelle del licantropo infuriato della prima traccia La pallottola d’argento o del celebre Jack Torrance (Jack Nicholson) di Shining, omaggiato alla grande con Il custode dell’albergo. Nulla è lasciato al caso e tra le righe non mancano certamente anche critiche feroci alla società e alla natura marcia dell’uomo: l’ascolto di Novecento volte è praticamente d’obbligo.

La penna principale è quella di Giovanni Caldone, bassista preparato e figlio d’arte (il padre è il poeta Carmelo Caldone, talvolta supervisore o coautore dei testi). Al suo fidato strumento spettano di fatto la composizione e spesso l’apertura dei brani. Gli altri membri, Wolko (voce), Christian Comaschi (tastiere), Stefano Frontini (chitarra) e Gianluca Trombella (batteria), non stanno però a guardare e in egual misura offrono alla causa tutte le proprie qualità e le proprie attitudini musicali. Il risultato, come già detto, è davvero riuscito, fresco e insolito. Ovvio, i Prigionieri, per essere davvero compresi vanno ascoltati più volte (tranquilli, non novecento!!!), nonostante siano capaci di servire sul piatto melodie convincenti e orecchiabili. Probabilmente le tematiche affrontate fanno storcere il naso alla stragrande maggioranza del pubblico. Inutile mentire, loro lo sanno, ma se ne fregano altamente, sputando violentemente storie di spettri, di perdizione assoluta e raccontando anche di un’immaginaria amicizia con Bukowski, maestro della beat generation e autore della raccolta poetica L’amore è un cane che viene dall’inferno, citata nel ritornello esplosivo di L’anima di Bukowski, una delle creature più riuscite del lotto. Protagonista assoluta la teatralità di Wolko, che interpreta il tutto senza fare sconti di nessun tipo. La sua voce arriva diretta ed elegante con tutto il carico emotivo necessario per animare la festa.

Difficile prendere o analizzare singolarmente le canzoni; il disco è omogeneo in tutto e per tutto, oltre che privo di momenti trascurabili. In conclusione, nove tracce (dieci con la versione acustica della title track) ben scritte, ben arrangiate e ben suonate. E siamo solo all’esordio. Band da tenere in considerazione…

A cura di Ricky Rage Gramazio

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Il sound alchemico dei Pervinka

I Pervinka sono una indie-rock band di Vignola, vicino Modena, formata da Igi, Chiodi, Alan, Sabba, Emi, rispettivamente batteria, basso, chitarra acustica, chitarra elettrica e voce.

Il progetto nasce nel 2015 dalla fusione di due generi diversi che portano i ragazzi a creare il loro sound molto personale, miscelando esperienze di vita vissuta con contaminazioni musicali differenti, una realtà nella quale ogni componente della band da voce in maniera molto libera alla propria vena creativa. Questa alchimia è di certo la ricetta segreta del loro sound.

Il brano che ci regalano oggi si intitola “Isterica” ed è una ballad rigorosamente in italiano (così come tutta la loro produzione) contenuta nel loro album “Contemporanea”, che potete trovare interamente sul loro canale.
Un arpeggio di chitarra elettrica in clean con un filo di delay accompagna sin dall’intro tutta la canzone, facendo da padrone insieme alla voce. Il timbro del cantante è molto particolare, una voce sicuramente unica nel panorama italiano, che difficilmente si potrebbe accostare ad altri cantanti. Grosso punto di forza per questa band dunque.
Il brano in sè contiene interessanti sviluppi melodici e aperture azzeccate nei ritornelli, sicuramente un lavoro ben fatto anche a livello qualitativo. Degna di nota, come dicevamo, è proprio questa alchimia di suoni che genera proprio l’identità di questo progetto.

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Il rock’n’roll anni 80 di Adriano Spini

Il nostro ospite di oggi è Adriano Spini, un giovane cantautore rock dal timbro molto graffiante che sembra provenire dagli anni 80.

Adriano canta in uno stile molto particolare, raggiungendo anche discreti risultati in vari contest e concorsi canori, ai quali porta spesso i suoi inediti come in questo caso che ci ha proposto la sua “Con una come te”.
Le sonorità del brano ricordano molto quelle di Vasco Rossi degli anni ’80, quello di “Liberi liberi” per intenderci, o della Steve Rogers Band, un rock’n’roll molto grezzo molto vintage, quasi underground con degli interessanti sviluppi chitarristici e un tiro eccezionale. Sicuramente buona la produzione.

Anche il testo ricorda molto le atmosfere dei sopracitati artisti, una tematica abbastanza classica e in linea con il la musica leggera italiana.
Da rivedere forse l’eccessivo effetto riverbero sulla voce di Adriano che sicuramente diminuendolo renderebbe la sua voce più vera.

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Il teatro di cartone dei Barrique

“Apro compiaciuto la piccola dispensa dove tengo i miei liquori, che a onor del vero, centellino per le occasioni importanti o per quando gli stati d’animo galleggiano nel limbo dell’indefinito. Stappo la mia bottiglia di grappa “barricata” e con gesto lento, pregustando la fiammata in gola, verso due dita della forte acquavite nel mio bicchierino. Mi siedo e indossate le cuffie di rito comincio con l’ascolto di questa nuova proposta.

I Barrique sono un gruppo ligure di giovani ragazzi che approcciano la
musica appoggiandosi ai grandi classici del cantautorato di matrice
italiana cercando però di dare una veste più fresca ai retaggi dei
loro riferimenti. Dopo svariate esperienze a tributare per l’appunto
Dalla, De Gregori e in generale quei mostri sacri che rimangono sempre
i riferimenti per chi ambisce a dar vita a composizioni di un certo
livello i ragazzi hanno prodotto un EP (en path – gennaio 2018) in cui
questi riferimenti emergono in maniera abbastanza netta. Mentre il
liquido invecchiato scorre nella gola mi aspettavo – proprio per dar
seguito al prallelismo con il loro nome – una maggior “barricatura”
anche nella loro proposta musicale, qualcosa di maggiormente scavato
nelle viscere e vissuto e invece il loro pop si presenta in maniera
leggera e fresca. Mi spiazza solo la corrispondenza tra nome e musica,
ma per il resto le canzoni – una volta ritrovato il baricentro del mio
equilibrio opinionale – risultano assolutamente piacevoli e ben
strutturate. Hanno il difetto di non esplodere mai, tenendosi sempre
su un registro molto delicato ma come primo lavoro si tratta
indubbiamente di qualcosa di apprezzabile.

Il pop-rock che offrono
denota anche una certa ricerca stilistica con piccole incursioni anche
in ambienti si stampo prog degli anni 70 grazie anche soprattutto alla
meravigliosa quarta dimensione che crea l’utilizzo del flauto traverso
(a mio avviso l’elemento di gran lunga caratterizzante negli
arrrangiamenti del gruppo). In qualche passaggio, con le dovute
proporzioni, sembra di risentire un po’ in tutte le canzoni un pizzico
di pfm del periodo “paganesco” o di De Andrè negli anni della svolta
etnico-dialettale. Chiaramente si tratta solo di suggestioni e di
piccoli rimandi ma già questo crea quella base che permette ad un
gruppo di farsi le ossa e maturare con un percorso solido davanti.
I 5 pezzi dell’EP risultano tutti molto ben strutturati e
orecchiabili, anche se come dicevo prima manca forse ogni tanto la
scintilla per renderli davvero efficaci. Gli arrangiamenti sono
ricercati anche se emergono poco (e meriterebbero di “uscire” un po’
di più) per la scelta di un mixaggio in post produzione che tiene
quasi troppo in primo piano la voce a discapito forse della resa
d’insieme.
E mentre la mia “barricata” ormai è finita, mi rendo conto che il
sapore amaro che mi è rimasto in bocca è perfettamente equilibrato con
il leggero sapore pop che mi hanno lasciato questi ragazzi…
assolutamente da tenere d’occhio, hanno tanta strada davanti ma le
fondamenta paiono ben radicate al terreno per costruire qualcosa di
veramente interessante.
Matteo Kabra Lorenzi”

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IL GIORNO DEI MASSTANG

Il progetto Masstang nasce dall’esigenza di portare suoni nuovi in un panorama italiano ormai dilaniato dai soliti arrangiamenti standard, la necessità di importare sonorità internazionali e di accostarle alle liriche nostrane.
Un embrione concepito nell’ormai lontano 2006 da un’idea di Dante Saudelli che, trovate persone con gli stessi intenti, tra cui la cantante Mari, riesce finalmente a prendere vita e concretizzarsi nel 2014.

Dopo un definitivo cambio di genere e l’abbandono definitivo del rap, sotto l’etichetta Bonnot Music, esce finalmente il disco ufficiale.

Il brano “Il giorno” potrebbe essere la perfetta colonna sonora per l’estate di molti di noi, un brano scanzonato che si muove sul mood elettronico che caratterizza la Band, con il particolare intermezzo cantato dell’MC Dante che va a “spezzare” il cantato di Mari.

Ritmiche tipicamente Drum’n’Bass si interesecano con i tipici sintetizzatori del dance rock, una miscela particolare e esplosiva che fa da cornice a un timbro vocale sicuramente suggestivo e degno di nota.

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Ettore Colella, da batterista a cantautore pop

Ettore Colella è un cantante e dj producer di Cosenza trasferitosi a Bologna. Classe 1992, il giovane cantautore ha anche un background di batterista e speaker radiofonico. Nato per fare musica insomma.

Il brano che Ettore ci propone si intitola “Ronin”, un brano sicuramente autobiografico che racconta la forza con la quale superare le difficoltà di una vita, simile a quella di un Guerriero, di un samurai appunto. La metafora della spada sta proprio a indicare la forza di volontà con la quale reagire a tutte le asperità che la quotidianità ci lancia addosso. Un testo toccante profondo che parla anche di famiglia, solida base di ognuno di noi, necessità per molti e comunque unico abbraccio sicuro che ci offre l’esistenza.

Il tutto viene raccontato in musica in maniera molto originale, uno stile a metà tra pop e rap, un testo che arriva quasi sfiorare il genere trap ma con una forte e luminosa voce speranzosa. Il timbro vocale è sicuramente interessante, graffiante, caldo, molto adatto allo stile del brano. Notevole l’arrangiamento e gli strumenti utilizzati, i synth, il pianoforte e le ritmiche rigorosamente elettroniche. Il brano di sicuro funziona e potrebbe diventare senza problemi una hit se fosse spinta dalle major come meriterebbe.

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VORRO E IL SUO NOSTALGICO ABBRACCIO PATERNO

Vorro è un contenitore pieno di sorprese… è quella scatola in cui hai riposto casualmente delle cose decenni fa, stratificandole fino a nasconderne la maggior parte. La apri dopo anni, impolverata e vissuta, e ne percepisci solo la superficie, ma più smuovi gli oggetti scavando a fondo e più ti accorgi di quanta varietà contenga. Ecco, mi pare di poter dire che lui è veramente così: ad un ascolto distratto e superficiale potrebbe apparire in un determinato modo, nascondendo la sua eccletticità, ma scarnificandone l’essenza emerge qualcosa di molto più profondo.

Giuseppe Vorro ha una predisposizione naturale alla composizione, il suo passato parla chiaro, parla per lui… studi di chitarra jazz, violino e poi a partire dagli anni 80 svariate esperienze con gruppi che ha alternato al suo prolifico slancio compositivo da solista in cui, pur muovendosi sempre nel recinto del pop, rock e canzone d’autore italiana, ha sempre trovato il modo di sperimentare. Il suo ricchissimo background musicale si può toccare con mano in maniera concreta sfogliando la sua proficua produzione discografica e non può essere un caso se nel suo percorso ha incrociato spesso e volentieri la strada con addetti ai lavori di primo piano come, per fare qualche nome, Mino Di Martino (ex Giganti), Niccolò Lapidari (paroliere anche per per la Vanoni) e Lele Battista (ex La Sintesi e grandissimo sperimentatore, polistrumentista e arrangiatore) che proprio nel brano che ci propone Giuseppe (“Con le braccia”) compare come spalla nei cori e nelle tastiere.

Si tratta di un brano pubblicato nel 2014 dai chiari richiami battistiani, che ci immerge da subito in una nebbia di compiaciuta malinconia… il testo ci catapulta in un passato che sembra appunto stringerci forte come un abbraccio nel ricordo della una figura paterna. L’intensa fusione della fisicità tipica ed evidente delle braccia (il lavoro, la gestualità, la forza) con il lato più affettivo che richiama questa parte del corpo (come detto prima, un abbraccio, una carezza…) crea un contrasto dolcemente nostalgico e malinconico che riassume quello che spesso è il rapporto padre-figlio, lasciando campate in aria emozioni e sensazioni in cui chiunque può riconoscersi.
Musicalmente, come detto poco fa, i richiami al primo Battisti sono evidenti e il pezzo, complice anche la presenza di Lele Battista e di strumentisti di primo piano si regge su di una “architettura arrangiamentale” veramente ben strutturata e solida con una base pop e incursioni funky-jazz che spezzano la linearità con grande maestria creando un’atmosfera inattesa ma perfettamente coesa.
La cosa che invece più spiazza, la discriminante che potrebbe sollevare da sola o inficiare la bontà di un brano, è il timbro di voce di Vorro. Devo ammettere che inizialmente mi ha turbato, non lo trovavo calato nel pezzo e di difficile contestualizzazione ma riascoltando più volte la canzone e altri brani di sua composizione, scandagliando nella sua copiosa discografia, ha cominciato ad arrivarmi in maniera diversa, con la sua peculiarità quasi acida e in costante equilibrio precario sulle note… il timbro alla fine arriva quasi ad avere una caratterizzazione addirittura più forte proprio per questi suoi piccoli difetti, come poi – pensandoci bene – era anche per Battisti. L’emotività è preponderante sulla tecnica e se magari inizialmente colpisce di più la voce perfetta e pulita, in un contesto cantautoriale un approccio quasi sporco rispecchia in fondo le tracce che ci si porta nell’anima.

Matteo Kabra Lorenzi

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