Un graffio. E di colpo mi desto dall’apatia di una liquida e calda serata d’estate. Un graffio, come la voce del frontman dei Camera Oscura che mi si insinua dentro e mi incuriosisce fin dall’incipit… è una sorta di veleno salutare… che entra e infiamma.
Il quintetto sardo è una delle piacevoli sorprese che mi capitano sovente quando mi trovo a scoprire gruppi nuovi… ci propongono “Moulin Rouge” un pezzo poderoso sia nelle sonorità che nei contenuti… una sorta di autodenuncia dell’uomo di fronte alle sue fragilità, debolezze e folli perversioni… un killer che entra in un locale per fare una strage senza motivo è quasi ormai solo uno sfondo all’incapacità di rinunciare ai propri vizi, è come se al male ci fossimo assuefatti. Quasi come se il timore ormai ci stia – per autodifesa – facendo scattare un senso di indifferenza. Essendo il pezzo clamorosamente registrato pochissime settimane prima della tragedia del Bataclan, si presenta quasi come profetico (l’ambientazione parigina….) e ci denuda di fronte ad una verità che ci imbarazza: come riusciamo a dimenticare in fretta, come alla fine i piaceri della carne ci avvicinino troppo facilmente all’oblio e rappresentino comunque una via di fuga molto facile a tutte le nostre paure e fobie “…e anche se sparano io resto qui a bere whisky al moulin rouge (…), ma io resto qui con josephine a fare sesso al moulin rouge (…) nel mentre tutto crolla io resto in piedi e sono parte del mio caos”.
Entrando in analisi prettamente musicali i Camera Oscura si distinguono proprio per la proposta particolarmente internazionale nella scelta dei suoni e degli arrangiamenti che strizzano l’occhio in maniera evidente all’hard rock/metal di gruppi come Megadeth, Iron Maiden e Scorpions riuscendo però a coniugare questo muro sonoro con gli stilemi classici del rock di matrice italiana lasciando qualche velato richiamo a linee melodiche che furono di Ritmo Tribale, Movida, Timoria e Matmata. Un raffinatissimo tessuto sonoro che si attorciglia sulle evoluzioni di un caratteristico cantato alla John de Leo in versione “spinta” o alla Axl Rose, se vogliamo. Lirico, melodrammatico, pungente e – come si diceva all’inizio – graffiante.
Accattivanti e impeccabili nel farsi spazio tra enfasi e metrica anche le chitarre, tra distorti ben definiti e suoni puliti e precisi negli assoli, ricalcano i classici cliché del genere metal/hard rock e, seppur non brillando in originalità, si calano perfettamente nella parte e, insieme ad una sezione ritmica perfetta anche e soprattutto perché non eccede mai quando non serve, rappresentano il tappeto ideale per le evoluzioni del cantato, confluendo a creare quell’equilibrio perfetto che valorizza la voce, probabilmente l’elemento portante, senza nulla togliere chiaramente agli altri componenti.
In definitiva ci troviamo davanti ad una band solidissima e con una proposta chiara e precisa, pregna di citazioni e di cultura, che merita un approfondimento ad occhi chiusi.
Ecco, dovessi investire dei soldi oggi su un gruppo che non conosco, andrei a scatola chiusa a comprarmi il loro cd, sicuro che il tanto di buono sentito nel singolo in questione sia una costante su tutta la loro produzione!
Un graffio, come dicevo all’inizio. Mi guardo e le braccia sono segnate… proprio come speravo… il marchio lo hanno lasciato!
Matteo Kabra Lorenzi