Sono terreni delicati questi… piccole isole di poesia dove ancora si riesce a rifugiare a volte la musica… musica da camera, verrebbe da dire… intesa propriamente come musica da piccola dimensione intima, da gustare sorseggiando un whisky, seduti senza fretta, assaporando questa delicatezza, ricavandosi una parentesi di quiete dalla frenesia del mondo. Roberto Acciaro ci offre un invito cortese a fermarci con lui e ascoltare questo suo album che dietro le vesti scanzonate di alcuni brani più leggeri e freschi nasconde una carica lirica di non poco conto che cresce in maniera esponenziale dopo i primi pezzi. Il suo jazz, che si incrocia a leggere pennellate blueseggianti, non è elitario ma – come detto – tende la mano anche ad un pubblico meno esperto, galleggiando in equilibrio tra l’ironia di Vinicio Capossela e Bobo Rondelli e i colori accesi di Paolo Conte e Rapahel Gualazzi, restituendoci comunque una sua personale prospettiva della musica che ha il pregio di non invilupparsi su se stessa in manierismi autoreferenziali, come capita troppo spesso in questo genere.
Per assurdo a mio avviso i brani meno incisivi, o forse più radiofonici (nell’accezione meno positiva del termine) sono proprio i due di apertura “Il patrimonio di un clochart” e “Crema solare”, che avrei distribuito diversamente sulla tracklist per evitare il rischio di offrire un biglietto da visita fuorviante di questo lavoro, che merita ma – va detto – solo con un ascolto attento e non di superficie si riesce a interpretare e a interiorizzare…
Resta il fatto che in generale il disco riesce ad alternare atmosfere diverse e raffinate con il pregio di non destabilizzare l’ascoltatore attento ma portarlo piuttosto a non stufarsi, incuriosendolo fino all’ultima nota, ed è un album indubbiamente ben suonato ed elegante da gustare nella propria intimità, facendone la chiave per scandagliare i propri pensieri più profondi.